di Walter Nocito e Silvio Gambino (UniCal) - Calabria Ora (27/XI/2008)
Da un paio di settimane il Ministro Gelmini ha reso pubbliche le Linee guida per la riforma dell'Università facendone una piattaforma di confronto e anche di sfida all’Onda e all’intero sistema delle autonomie universitarie. Nell’ottica del Ministro, le Linee costituiscono la “proposta aperta” per realizzare la strategia del Governo Berlusconi per la Legislatura in corso, presentandosi come strumento funzionale a realizzare gli obiettivi strategici per l’intero Paese, identificati nell’equilibrio di bilancio, nella implementazione dell’Agenda di Lisbona e nel recupero del gap di competitività del sistema Paese (pag. 1, Linee guida).
Rispetto a tale impostazione del Governo, la domanda che pare lecito porsi è: può un sistema universitario essere conformato alle esigenze di equilibrio di bilancio e alla pura competitività del Paese-Azienda. L’interrogativo non è peregrino. La difficoltà di convenire sulla risposta spiega tutti i ‘problemi di comunicazione’ fra Paese reale e Paese legale, fra l’Onda, la Comunità scientifica e i governanti.
La risposta da parte di chi scrive è decisamente nel senso negativo e ciò per più ragioni, la principale delle quali risiede nella considerazione secondo cui la spesa pubblica, per la scuola, per la ricerca e per l’università, costituisce un ‘investimento di lungo termine’, destinato a produrre effetti positivi non necessariamente nell’immediato bensì nel periodo medio-lungo; per tale ragione non può essere valutata con parametri meramente aziendalistici o economicistici. Farlo significherebbe, inevitabilmente, lanciare alle ortiche secoli di quella cultura umanistica, europea e universalistica, che costituisce a tuttora la base di una umanizzazione per lo sviluppo sostenibile delle tecnologie contemporanee e che fa dell’Italia un vero e proprio ‘giacimento culturale’ che il mondo interno ci invidia.
Nella missione storica perseguita dalle autonomie universitarie, a partire dalla universitas medievale fino al modello franco-tedesco (humboldtiano), trova posto tanto la ricerca di base, intesa come ricerca pura, quanto la ricerca applicata, intesa come trasferimento tecnico e tecnologico dei risultati della ricerca scientifica negli ambiti necessari allo sviluppo della competitività socialmente sostenibile dei sistemi economici (creazione di reddito, equa redistribuzione dello stesso, mobilità sociale).
Esattamente a questo livello si colloca la valutazione negativa sulla cultura delle riforme universitarie praticate attraverso le leve del bilancio, le quali (tagli al FFO, blocco del turn over), produrranno inevitabilmente (almeno a partire dal 2010) l’abbandono degli ambiti della ricerca pura a solo ed esclusivo vantaggio di quella applicata, inevitabilmente asfittica e alla lunga improduttiva e insostenibile. Un esempio fra i tanti possibili. Potranno il MIUR e le singole università del Paese finanziare in futuro ricerche proposte dalla comunità scientifica sul diritto attico, sul sanscrito, sulla fisica teorica? Ma, se non potranno più finanziare tali filoni di base, continua ad avere senso citare le statistiche internazionali sul posizionamento comparativo degli atenei del Paese, rispetto ad università americane e tedesche dove tali ‘ricerche pure’ sono doviziosamente sostenute e finanziate alla pari di quelle ‘applicate’? Come si vede, ci si deve sempre interrogare sulla ratio e la strategia di ogni politica di riforma. Le risposte non sono mai scontate!
venerdì 28 novembre 2008
Lettera ai docenti di Ingegneria
Questa lettera ai docenti di Ingegneria è stata scritta a seguito del Consiglio di Facoltà del 25 Novembre 2008 dai precari invisibili della ricerca e dagli studenti che hanno assistito al consiglio.
Al Consiglio di Facoltà di Ingegneria
UNICAL
Rinfrancante, appassionata, esaltante questi sono stati alcuni degli aggettivi da voi utilizzati per commentare la performance televisiva di studenti e precari della ricerca dell’UniCal ad Annozero, ma più specificatamente di studenti e precari della ricerca della Facoltà di Ingegneria dell’UniCal. Vi siamo piaciuti. Alcuni di voi si sono detti orgogliosi di noi.
E poi siamo venuti in Consiglio di Facoltà a portare le stesse facce, gli stessi toni, indignati ma moderati, gli stessi concetti che tanto avete apprezzato seduti al divano di casa.
Se il nostro show è stato per voi entusiasmante, il vostro è stato ai nostri occhi deprimente.
Opportunisti, egoisti, ciechi, incapaci di pensare ad un obiettivo comune e lottare per esso, che nessuno si abbia ad offendere, così vi abbiamo visto noi.
Dopo gli applausi e i complimenti, si è tornati immediatamente alla dura realtà, quella fatta dai granitici blocchi di potere che dominano la nostra Facoltà, ai muro contro muro, alle logiche gerarchiche e baronali, alla bieca ostinazione di chi non vuole recedere di un passo di fronte a nulla.
L’esaltante esperienza di pensarvi diversi la delegate a noi, niente vi ha smosso di un millimetro.
E allora ci tocca continuare solo ad immaginare che in Consiglio di Facoltà, anziché consumare tempo ed energia in discussioni infinite, si discuta di come permettere agli studenti di diventare attori protagonisti nel loro processo di crescita e maturazione, anziché difendere a spada tratta i propri valvassori e valvassini, si trovi il modo di liberare idee e pensieri dal giogo dei maestri, senza l’avallo dei quali, adesso non si vive e non si muore, anziché asservire merito e prestigio accademico ai meccanismi spartitori, si pensi a come permettere a tutti di lavorare con dignità e orgoglio per generare nuovo merito e nuovo prestigio. E’ incredibile come anziché studiare e scegliere le strade più giuste per trattenere all’interno della facoltà le risorse umane giovani e meritevoli ci si scanni per ore su un avanzamento di carriera.
Ci spiace vedere un nuovo Preside già in balia di questi meccanismi spartitori. Ci saremmo aspettati che superasse l’empasse creatasi con l’audacia di chi riesce a guardare lontano, di chi riesce a riportare i colleghi sulla logica di cosa sarebbe giusto per la Facoltà, e invece abbiamo assistito ad un infelice “non me la sento”…
Preside, se lei non se la sente, noi, al contrario, ce la sentiamo. Se lei si lascia impaurire da cosa i Ministeri proclamano, noi, al contrario ci siamo stancati di avere paura. E la esortiamo ad assumere decisioni coraggiose e di rottura col passato.
A distanza di un mese dalla conversione in legge di un decreto ingiusto, offensivo, mortificante per chi produce cultura, voi, docenti di Ingegneria non avete ancora trovato un momento per produrre un documento che esprima indignazione per le politiche del Governo sull’Università. Da che parte state? Non l’abbiamo davvero ancora capito. Noi siamo al centro della lotta che mira a ridare una dignità al nostro futuro e al vostro presente, stiamo facendo rete e ci stiamo facendo valere, e voi? Decidetelo per favore, e fatecelo sapere con fatti, azioni, ordini del giorno dei Consigli di Facoltà, commissioni apposite, cambiamenti ai regolamenti e agli statuti, proposte negli organi di governo dell’ateneo. Le paternalistiche pacche sulle spalle o i complimenti non servono più. Vi esortiamo ad uscire dalla vostra ignavia, se decideste di non farlo o decideste di farlo per stare con chi minaccia la democrazia di questo paese, noi continueremo nella nostra lotta non violenta per cambiare una nazione che non premia i giovani, che non premia il merito, che non premia l’impegno. Semplicemente, se deciderete di essere un ostacolo, sarete anche voi travolti dall’onda della creatività, dell’entusiasmo, della partecipazione e avrete perso un’altra, l’ennesima occasione per provare ad essere quelli che avreste voluto essere agli inizi delle vostre carriere.
Gli studenti e i precari “invisibili” della ricerca
dell’Università della Calabria
Al Consiglio di Facoltà di Ingegneria
UNICAL
Rinfrancante, appassionata, esaltante questi sono stati alcuni degli aggettivi da voi utilizzati per commentare la performance televisiva di studenti e precari della ricerca dell’UniCal ad Annozero, ma più specificatamente di studenti e precari della ricerca della Facoltà di Ingegneria dell’UniCal. Vi siamo piaciuti. Alcuni di voi si sono detti orgogliosi di noi.
E poi siamo venuti in Consiglio di Facoltà a portare le stesse facce, gli stessi toni, indignati ma moderati, gli stessi concetti che tanto avete apprezzato seduti al divano di casa.
Se il nostro show è stato per voi entusiasmante, il vostro è stato ai nostri occhi deprimente.
Opportunisti, egoisti, ciechi, incapaci di pensare ad un obiettivo comune e lottare per esso, che nessuno si abbia ad offendere, così vi abbiamo visto noi.
Dopo gli applausi e i complimenti, si è tornati immediatamente alla dura realtà, quella fatta dai granitici blocchi di potere che dominano la nostra Facoltà, ai muro contro muro, alle logiche gerarchiche e baronali, alla bieca ostinazione di chi non vuole recedere di un passo di fronte a nulla.
L’esaltante esperienza di pensarvi diversi la delegate a noi, niente vi ha smosso di un millimetro.
E allora ci tocca continuare solo ad immaginare che in Consiglio di Facoltà, anziché consumare tempo ed energia in discussioni infinite, si discuta di come permettere agli studenti di diventare attori protagonisti nel loro processo di crescita e maturazione, anziché difendere a spada tratta i propri valvassori e valvassini, si trovi il modo di liberare idee e pensieri dal giogo dei maestri, senza l’avallo dei quali, adesso non si vive e non si muore, anziché asservire merito e prestigio accademico ai meccanismi spartitori, si pensi a come permettere a tutti di lavorare con dignità e orgoglio per generare nuovo merito e nuovo prestigio. E’ incredibile come anziché studiare e scegliere le strade più giuste per trattenere all’interno della facoltà le risorse umane giovani e meritevoli ci si scanni per ore su un avanzamento di carriera.
Ci spiace vedere un nuovo Preside già in balia di questi meccanismi spartitori. Ci saremmo aspettati che superasse l’empasse creatasi con l’audacia di chi riesce a guardare lontano, di chi riesce a riportare i colleghi sulla logica di cosa sarebbe giusto per la Facoltà, e invece abbiamo assistito ad un infelice “non me la sento”…
Preside, se lei non se la sente, noi, al contrario, ce la sentiamo. Se lei si lascia impaurire da cosa i Ministeri proclamano, noi, al contrario ci siamo stancati di avere paura. E la esortiamo ad assumere decisioni coraggiose e di rottura col passato.
A distanza di un mese dalla conversione in legge di un decreto ingiusto, offensivo, mortificante per chi produce cultura, voi, docenti di Ingegneria non avete ancora trovato un momento per produrre un documento che esprima indignazione per le politiche del Governo sull’Università. Da che parte state? Non l’abbiamo davvero ancora capito. Noi siamo al centro della lotta che mira a ridare una dignità al nostro futuro e al vostro presente, stiamo facendo rete e ci stiamo facendo valere, e voi? Decidetelo per favore, e fatecelo sapere con fatti, azioni, ordini del giorno dei Consigli di Facoltà, commissioni apposite, cambiamenti ai regolamenti e agli statuti, proposte negli organi di governo dell’ateneo. Le paternalistiche pacche sulle spalle o i complimenti non servono più. Vi esortiamo ad uscire dalla vostra ignavia, se decideste di non farlo o decideste di farlo per stare con chi minaccia la democrazia di questo paese, noi continueremo nella nostra lotta non violenta per cambiare una nazione che non premia i giovani, che non premia il merito, che non premia l’impegno. Semplicemente, se deciderete di essere un ostacolo, sarete anche voi travolti dall’onda della creatività, dell’entusiasmo, della partecipazione e avrete perso un’altra, l’ennesima occasione per provare ad essere quelli che avreste voluto essere agli inizi delle vostre carriere.
Gli studenti e i precari “invisibili” della ricerca
dell’Università della Calabria
martedì 25 novembre 2008
Contro la violenza sulle donne
Martedì 25 Novembre ... oggi!
giornata nazionale contro la violenza sulle donne
seminario - film - cena sociale - festa
dalle 18:00 in poi alla Zenith 2 Cubo 13C
a cura del comitatoeconomiaunical
Pensieri femministi sull’autoriforma dell’università
di Figliefemmine (Bologna), da Carta, www.carta.org
Per adesioni: figliefemmine@inventati.org
Come femministe che lottano, si muovono e creano saperi all’interno dell’università crediamo sia fondamentale un’analisi dal punto di vista di genere degli ultimi decreti legge in materia di istruzione e welfare.
Prendiamo parola come componenti del movimento sulla reale condizione delle donne nel sistema universitario attuale, con la volontà di portare un contributo alla critica dell’esistente e alla volontà di autoriforma espressa dalle studentesse e dagli studenti.
Partiamo dalla pesante ricaduta che ha lo smantellamento del welfare, di cui i decreti Tremonti-Gelmini sono espressione, sulle donne e sulla nostra libertà di autodeterminazione. Oltre a delegare la nostra salute ad enti privati, tagliando fondi ai Consultori e persino ai Centri Antiviolenza, promuove una retorica familista neo-fascista, in cui il lavoro di cura si riversa completamente sulle spalle delle donne, ancora una volta ricacciate in casa a occuparsi di bambini e anziani.
La famiglia è il luogo primario delle violenze contro le donne e del controllo sui nostri corpi e sulle nostre vite. Un’altra conseguenza è la gerarchizzazione femminile su linee razziali e di classe del lavoro di cura che si traduce in una regolazione dei flussi migratori sulla base dei servizi che il pubblico non vuole più garantire.
Il DL 137 riduce il tempo scolastico a 24 ore settimanali, decretando la scomparsa del tempo pieno. Questo pone fine ad un progetto pedagogico avanzato e decreta una divisione di classe tra madri che possono pagare per lasciare i bambini a scuola e madri che saranno costrette a pagare col proprio tempo e progetto di vita, tenendoli a casa, visto e considerato che ancora oggi gli uomini-padri non sembrano condividere quanto dovrebbero il lavoro di cura.
Meno tempo a scuola e classi differenziali per migranti significano precisa volontà di discriminazione e pongono le basi per un’educazione razzista, xenofoba, sulla scorta di un “pensiero unico” catto-fascista.
L’insegnamento nelle scuole primarie è tuttora demandato alle donne. Questa femminilizzazione dell’educazione comporta il perpetuarsi dello stereotipo che ci vuole inserite all’interno del mondo dell’istruzione solo nei gradi più vicini alle funzioni materne. L’enorme presenza di donne nelle scuole elementari e la decisione della Gelmini di imporre alle classi una maestra unica comporta il futuro licenziamento di massa delle donne.
La “razionalizzazione” del personale ATA sancita nel DL 133 significa anch’essa licenziamenti per le donne, che rappresentano due terzi dei lavoratori, e incide ulteriormente sull’occupazione femminile che nel nostro paese non può vantare dati dignitosi. Le modifiche all’iter di richiesta del part-time, che diventa una “concessione dell’amministrazione” penalizzano ancora una volta le donne che in un numero maggiore usufruiscono di questa modalità lavorativa.
La critica al DL 133, nella parte riservata alla “riforma” dell’Università, che in realtà sancisce tagli economici, di personale e la trasformazione dell’Università pubblica in fondazioni private, non può esimersi da un’analisi delle nefaste condizioni del sistema universitario precedente. In particolare è un sistema che per le donne rappresenta ancora un “tetto di cristallo”.
Le donne laureate superano di gran lunga il numero di uomini laureati ogni anno, il numero di ricercatrici di III Livello (precarie e sottopagate) è in aumento, ma risulta in decremento il dato sulle ricercatrici di I livello, il numero di docenti ordinarie è inferiore alla media europea, e nel CRUI (Conferenza Rettori Università Italiana) ci sono solo 2 donne su 67 membri, che rappresentano il 2, 6% contro il 25% francese. Il sapere è di fatto in mano maschile come in tutti gli ambiti economico-politici italiani, e si traduce nelle tante forme di potere patriarcale.
Riteniamo che il blocco del turn-over al 20% penalizzerà ulteriormente le donne, e le possibilità di ricerca sui saperi “non convenzionali” per il sistema italiano e in particolare sui “grandi assenti” Gender Studies. Con i tagli e senza una precisa volontà politica, la sperimentazione nella ricerca non è ammessa, la razionalizzazione finisce per limitare anche la ricerca tradizionale e a mercificare il sapere.
Da una parte in Italia, a differenza da tanti paesi europei e extraeuropei non esistono Lauree triennali in Studi di Genere. D’altra parte quando si traducono in insegnamenti all’interno di triennali o specialistiche vengono trasmessi dal punto di vista metodologico come specificità, senza metterne in pratica gli aspetti di messa in discussione della didattica ufficiale e delle asimmetrie di potere (si ripropone la lezione frontale, nozionistica…). I temi degli studi di genere si ritrovano a dover stare all’interno di compartimenti stagni limitanti, e, dove esistono, vengono relegati a nicchie di saperi che non prevedono la contaminazione con gli altri, neutralizzandone la natura trasversale a tutti gli altri insegnamenti. Non è prevista inoltre l’integrazione della didattica ufficiale con saperi che provengano dal basso, da soggettività altre, come le espressioni di movimento della società civile, in questo caso di donne femministe e lesbiche. Questo provoca l’esclusione di temi che noi consideriamo fondamentali per la formazione ma che il “sistema” non considera neutri, perciò sufficientemente scientifici o razionali. Ad esempio sembra impensabile proporre tesi di ricerca o addirittura corsi sull’autodeterminazione delle donne, sulla sessualità, sul sex work, sulle esperienze e la storia dei movimenti lgbtqi o sul transessualismo. Sono temi che, se portati dal basso all’interno dell’università possono aprire delle brecce, mettere in discussione l’intera impalcatura patriarcale sulla quale si regge il sistema di sapere-potere interno ed esterno all’università stessa.
Crediamo che la volontà di autoriforma non possa prescindere da un’analisi di genere sul sistema universitario italiano. Se l’onda decidesse di omettere questa critica, finirebbe per riproporre quel concetto di “neutralità” che finisce per escludere le esistenze, resistenze e desideri di tutte e tutti.
Prendiamo parola come componenti del movimento sulla reale condizione delle donne nel sistema universitario attuale, con la volontà di portare un contributo alla critica dell’esistente e alla volontà di autoriforma espressa dalle studentesse e dagli studenti.
Partiamo dalla pesante ricaduta che ha lo smantellamento del welfare, di cui i decreti Tremonti-Gelmini sono espressione, sulle donne e sulla nostra libertà di autodeterminazione. Oltre a delegare la nostra salute ad enti privati, tagliando fondi ai Consultori e persino ai Centri Antiviolenza, promuove una retorica familista neo-fascista, in cui il lavoro di cura si riversa completamente sulle spalle delle donne, ancora una volta ricacciate in casa a occuparsi di bambini e anziani.
La famiglia è il luogo primario delle violenze contro le donne e del controllo sui nostri corpi e sulle nostre vite. Un’altra conseguenza è la gerarchizzazione femminile su linee razziali e di classe del lavoro di cura che si traduce in una regolazione dei flussi migratori sulla base dei servizi che il pubblico non vuole più garantire.
Il DL 137 riduce il tempo scolastico a 24 ore settimanali, decretando la scomparsa del tempo pieno. Questo pone fine ad un progetto pedagogico avanzato e decreta una divisione di classe tra madri che possono pagare per lasciare i bambini a scuola e madri che saranno costrette a pagare col proprio tempo e progetto di vita, tenendoli a casa, visto e considerato che ancora oggi gli uomini-padri non sembrano condividere quanto dovrebbero il lavoro di cura.
Meno tempo a scuola e classi differenziali per migranti significano precisa volontà di discriminazione e pongono le basi per un’educazione razzista, xenofoba, sulla scorta di un “pensiero unico” catto-fascista.
L’insegnamento nelle scuole primarie è tuttora demandato alle donne. Questa femminilizzazione dell’educazione comporta il perpetuarsi dello stereotipo che ci vuole inserite all’interno del mondo dell’istruzione solo nei gradi più vicini alle funzioni materne. L’enorme presenza di donne nelle scuole elementari e la decisione della Gelmini di imporre alle classi una maestra unica comporta il futuro licenziamento di massa delle donne.
La “razionalizzazione” del personale ATA sancita nel DL 133 significa anch’essa licenziamenti per le donne, che rappresentano due terzi dei lavoratori, e incide ulteriormente sull’occupazione femminile che nel nostro paese non può vantare dati dignitosi. Le modifiche all’iter di richiesta del part-time, che diventa una “concessione dell’amministrazione” penalizzano ancora una volta le donne che in un numero maggiore usufruiscono di questa modalità lavorativa.
La critica al DL 133, nella parte riservata alla “riforma” dell’Università, che in realtà sancisce tagli economici, di personale e la trasformazione dell’Università pubblica in fondazioni private, non può esimersi da un’analisi delle nefaste condizioni del sistema universitario precedente. In particolare è un sistema che per le donne rappresenta ancora un “tetto di cristallo”.
Le donne laureate superano di gran lunga il numero di uomini laureati ogni anno, il numero di ricercatrici di III Livello (precarie e sottopagate) è in aumento, ma risulta in decremento il dato sulle ricercatrici di I livello, il numero di docenti ordinarie è inferiore alla media europea, e nel CRUI (Conferenza Rettori Università Italiana) ci sono solo 2 donne su 67 membri, che rappresentano il 2, 6% contro il 25% francese. Il sapere è di fatto in mano maschile come in tutti gli ambiti economico-politici italiani, e si traduce nelle tante forme di potere patriarcale.
Riteniamo che il blocco del turn-over al 20% penalizzerà ulteriormente le donne, e le possibilità di ricerca sui saperi “non convenzionali” per il sistema italiano e in particolare sui “grandi assenti” Gender Studies. Con i tagli e senza una precisa volontà politica, la sperimentazione nella ricerca non è ammessa, la razionalizzazione finisce per limitare anche la ricerca tradizionale e a mercificare il sapere.
Da una parte in Italia, a differenza da tanti paesi europei e extraeuropei non esistono Lauree triennali in Studi di Genere. D’altra parte quando si traducono in insegnamenti all’interno di triennali o specialistiche vengono trasmessi dal punto di vista metodologico come specificità, senza metterne in pratica gli aspetti di messa in discussione della didattica ufficiale e delle asimmetrie di potere (si ripropone la lezione frontale, nozionistica…). I temi degli studi di genere si ritrovano a dover stare all’interno di compartimenti stagni limitanti, e, dove esistono, vengono relegati a nicchie di saperi che non prevedono la contaminazione con gli altri, neutralizzandone la natura trasversale a tutti gli altri insegnamenti. Non è prevista inoltre l’integrazione della didattica ufficiale con saperi che provengano dal basso, da soggettività altre, come le espressioni di movimento della società civile, in questo caso di donne femministe e lesbiche. Questo provoca l’esclusione di temi che noi consideriamo fondamentali per la formazione ma che il “sistema” non considera neutri, perciò sufficientemente scientifici o razionali. Ad esempio sembra impensabile proporre tesi di ricerca o addirittura corsi sull’autodeterminazione delle donne, sulla sessualità, sul sex work, sulle esperienze e la storia dei movimenti lgbtqi o sul transessualismo. Sono temi che, se portati dal basso all’interno dell’università possono aprire delle brecce, mettere in discussione l’intera impalcatura patriarcale sulla quale si regge il sistema di sapere-potere interno ed esterno all’università stessa.
Crediamo che la volontà di autoriforma non possa prescindere da un’analisi di genere sul sistema universitario italiano. Se l’onda decidesse di omettere questa critica, finirebbe per riproporre quel concetto di “neutralità” che finisce per escludere le esistenze, resistenze e desideri di tutte e tutti.
Per adesioni: figliefemmine@inventati.org
lunedì 24 novembre 2008
Articolo su Annozero
Riporto l'articolo di Angelo d'Orsi, professore di Storia del Pensiero Politico all'Università di Torino, pubblicato su "Micromega" del 22.11.
22.11.08 - Ad Annozero l’università modello Barbareschi
L’altra sera ho guardato la tv. Non lo faccio mai. Mai più di cinque minuti. Non per snobismo, ma per istinto di sopravvivenza. Non insisto. Sono certo che il lettore condivide i miei sentimenti, le mie sensazioni, la vera e propria angoscia che mi coglie davanti a un televisore acceso. Quale che sia il programma o la rete. Ma l’altra sera mi sono fermato, sia pure a tratti (come quando sei sott’acqua, senza respiratore né bombole d’ossigeno, e hai bisogno di riemergere per prendere fiato, così mi dovevo allontanare, ogni tot minuti, dallo schermo malefico): l’ho fatto per dovere professionale, diciamo così. Si parlava di università, ad Annozero, il programma di Santoro, su Raidue. Mi ha colpito l’arroganza sorridente di un ospite, tale Barbareschi, un attore che in anni non lontani, appena giunto al potere il Cav, aveva cominciato a denunciare “l’egemonia della sinistra” che l’aveva emarginato. Deve aver tanto rotto le scatole – a chi di dovere – che non solo è stato ricuperato in qualche programma televisivo, o forse pure in qualche spettacolino teatrale o in film di adeguato livello, ma addirittura gli è stata offerta una candidatura dal Capo. E, grazie alla legge elettorale dal Capo imposta all’Italia (una legge che il Centrosinistra al potere non ha saputo cancellare in 48 ore come avrebbe potuto e dovuto fare), è inopinatamente divenuto “rappresentante del popolo”. E in quel ruolo sembrava trovarsi perfettamente a suo agio, a giudicare dalla sua performance televisiva, nella quale ostentava un bell’abito nuovo di trinca, una barba perfettamente curata, e soprattutto la sicurezza di chi si sente dentro a “’na botte de fero”, come si dice a Roma…
Sulla base di tale tronfia sicumera, quella del vincitore, e di una pari incompetenza, su praticamente tutti i temi affrontati, il bel tomo interrompeva, ingiuriava, o, peggio, faceva le mostre di un sarcasmo patetico, ma anche inquietante. Parlava di università, il signor Barbareschi, pavoneggiandosi come se recitasse al Piccolo Teatro nei panni di un personaggio cechoviano, tipo ricco possidente che riceve i mugiki che portano le loro rimostranze, e ne ottengono in prima istanza una ramanzina, e, se insistono, una “salutare” bastonatura, inflitta tramite servi. Si era addirittura, il bellimbusto, portato dei “documenti”, che ha citato male, prendendo fischi per fiaschi, confondendo sedi universitarie, corsi di laurea, progetti di ricerca. Tutto a dimostrare che l’università e la scuola italiana vanno malissimo e che è necessario qualificare, rinnovare, “spendere meglio” (ora si dice così, quando si devono giustificare tagli alle spese essenziali, sociali, e culturali: spendere meglio) e che questo è l’intento della signora Gelmini, e del Capo. (Salvo, poi, aggredire il conduttore o chiunque altri esprimesse critiche alla situazione attuale, accusandoli di “spargere pessimismo”: come è noto la parola d’ordine del padrone è, ora: ottimismo, buonumore, e tanti sorrisi). Appollaiato in alto, goffo e stridulo, uno studente “dell’altra parte” (“perché non si fanno parlare anche gli studenti dell’altra parte?”, reclamava il cicisbeo: “ce ne sono tanti!”), gli dava man forte, in un duetto finale con uno studente piddì, che lo chiamava per nome, insistendo sull’amicizia con il fascistello. Penoso.
Per fortuna c’era anche un ragazzo esperto di leggi, di dati, e capace di ragionare criticamente: ma sembrava terribilmente fuori posto, anche perché, là, la parola te la devi guadagnare e la devi difendere mitra alla mano. Del resto anche il grande Fuksas, anneddotico (intanto insultato dall’impunito Barbareschi, dall’alto non si sa di quale scienza ed etica), non ha dato alcun contributo degno di questo nome al dibattito. E il buon Perotti non faceva che ripetere le tesi assolutamente “bocconiane” che tripudiano nel suo libro sull’università (che ha avuto la fortuna di uscire al momento giusto, altrimenti nessuno se lo sarebbe filato, come è capitato a molti altri libri prima di questo, rimasti cibo per palati raffinati e solinghi). Dalla Cattolica, Pietro Schlesinger, su uno schermo gigante, come un predicatore medievale, scagliava anatemi. Uno scenario surreale.
Se non sapessi qualcosa del mondo accademico, da quelle due ore, o forse più, di talk show, non avrei imparato un fico secco. Mi ha confortato però vedere e sentire i giovani dell’Università della Calabria: seri, ma vivaci, preparati, ma portatori di autentico sapere critico, combattivi, senza estremismi. Se la lotta proseguirà, se non si arenerà, lo si dovrà a giovani come quelli. Studenti di un ateneo periferico, in una delle zone disastrate del Paese, un ateneo di quelli, probabilmente, “a rischio Tremonti”. Dove, guarda caso, ci sono – accanto ai casi di corruzione denunciati, che umiliano intelligenza e volontà di studiare – giovani dai quali tutti abbiamo da apprendere qualcosa, specie considerando la loro prevalente estrazione sociale, perlopiù assai modesta. E allora, pensando a quell’assemblea serale all’Unical, mi sono detto: caro mio, hai sofferto come a un’assemblea di condominio, ma ne è valsa la pena.
Angelo d’Orsi
22.11.08 - Ad Annozero l’università modello Barbareschi
L’altra sera ho guardato la tv. Non lo faccio mai. Mai più di cinque minuti. Non per snobismo, ma per istinto di sopravvivenza. Non insisto. Sono certo che il lettore condivide i miei sentimenti, le mie sensazioni, la vera e propria angoscia che mi coglie davanti a un televisore acceso. Quale che sia il programma o la rete. Ma l’altra sera mi sono fermato, sia pure a tratti (come quando sei sott’acqua, senza respiratore né bombole d’ossigeno, e hai bisogno di riemergere per prendere fiato, così mi dovevo allontanare, ogni tot minuti, dallo schermo malefico): l’ho fatto per dovere professionale, diciamo così. Si parlava di università, ad Annozero, il programma di Santoro, su Raidue. Mi ha colpito l’arroganza sorridente di un ospite, tale Barbareschi, un attore che in anni non lontani, appena giunto al potere il Cav, aveva cominciato a denunciare “l’egemonia della sinistra” che l’aveva emarginato. Deve aver tanto rotto le scatole – a chi di dovere – che non solo è stato ricuperato in qualche programma televisivo, o forse pure in qualche spettacolino teatrale o in film di adeguato livello, ma addirittura gli è stata offerta una candidatura dal Capo. E, grazie alla legge elettorale dal Capo imposta all’Italia (una legge che il Centrosinistra al potere non ha saputo cancellare in 48 ore come avrebbe potuto e dovuto fare), è inopinatamente divenuto “rappresentante del popolo”. E in quel ruolo sembrava trovarsi perfettamente a suo agio, a giudicare dalla sua performance televisiva, nella quale ostentava un bell’abito nuovo di trinca, una barba perfettamente curata, e soprattutto la sicurezza di chi si sente dentro a “’na botte de fero”, come si dice a Roma…
Sulla base di tale tronfia sicumera, quella del vincitore, e di una pari incompetenza, su praticamente tutti i temi affrontati, il bel tomo interrompeva, ingiuriava, o, peggio, faceva le mostre di un sarcasmo patetico, ma anche inquietante. Parlava di università, il signor Barbareschi, pavoneggiandosi come se recitasse al Piccolo Teatro nei panni di un personaggio cechoviano, tipo ricco possidente che riceve i mugiki che portano le loro rimostranze, e ne ottengono in prima istanza una ramanzina, e, se insistono, una “salutare” bastonatura, inflitta tramite servi. Si era addirittura, il bellimbusto, portato dei “documenti”, che ha citato male, prendendo fischi per fiaschi, confondendo sedi universitarie, corsi di laurea, progetti di ricerca. Tutto a dimostrare che l’università e la scuola italiana vanno malissimo e che è necessario qualificare, rinnovare, “spendere meglio” (ora si dice così, quando si devono giustificare tagli alle spese essenziali, sociali, e culturali: spendere meglio) e che questo è l’intento della signora Gelmini, e del Capo. (Salvo, poi, aggredire il conduttore o chiunque altri esprimesse critiche alla situazione attuale, accusandoli di “spargere pessimismo”: come è noto la parola d’ordine del padrone è, ora: ottimismo, buonumore, e tanti sorrisi). Appollaiato in alto, goffo e stridulo, uno studente “dell’altra parte” (“perché non si fanno parlare anche gli studenti dell’altra parte?”, reclamava il cicisbeo: “ce ne sono tanti!”), gli dava man forte, in un duetto finale con uno studente piddì, che lo chiamava per nome, insistendo sull’amicizia con il fascistello. Penoso.
Per fortuna c’era anche un ragazzo esperto di leggi, di dati, e capace di ragionare criticamente: ma sembrava terribilmente fuori posto, anche perché, là, la parola te la devi guadagnare e la devi difendere mitra alla mano. Del resto anche il grande Fuksas, anneddotico (intanto insultato dall’impunito Barbareschi, dall’alto non si sa di quale scienza ed etica), non ha dato alcun contributo degno di questo nome al dibattito. E il buon Perotti non faceva che ripetere le tesi assolutamente “bocconiane” che tripudiano nel suo libro sull’università (che ha avuto la fortuna di uscire al momento giusto, altrimenti nessuno se lo sarebbe filato, come è capitato a molti altri libri prima di questo, rimasti cibo per palati raffinati e solinghi). Dalla Cattolica, Pietro Schlesinger, su uno schermo gigante, come un predicatore medievale, scagliava anatemi. Uno scenario surreale.
Se non sapessi qualcosa del mondo accademico, da quelle due ore, o forse più, di talk show, non avrei imparato un fico secco. Mi ha confortato però vedere e sentire i giovani dell’Università della Calabria: seri, ma vivaci, preparati, ma portatori di autentico sapere critico, combattivi, senza estremismi. Se la lotta proseguirà, se non si arenerà, lo si dovrà a giovani come quelli. Studenti di un ateneo periferico, in una delle zone disastrate del Paese, un ateneo di quelli, probabilmente, “a rischio Tremonti”. Dove, guarda caso, ci sono – accanto ai casi di corruzione denunciati, che umiliano intelligenza e volontà di studiare – giovani dai quali tutti abbiamo da apprendere qualcosa, specie considerando la loro prevalente estrazione sociale, perlopiù assai modesta. E allora, pensando a quell’assemblea serale all’Unical, mi sono detto: caro mio, hai sofferto come a un’assemblea di condominio, ma ne è valsa la pena.
Angelo d’Orsi
domenica 23 novembre 2008
Lettera del Rettore
Ciao a tutt*
a questo link è possibile scaricare e leggere la lettera
che il Rettore ha scritto in seguito alla trasmissione Anno Zero.
http://www.unical.it/portale/portaltemplates/view/view.cfm?10814
Ire
a questo link è possibile scaricare e leggere la lettera
che il Rettore ha scritto in seguito alla trasmissione Anno Zero.
http://www.unical.it/portale/portaltemplates/view/view.cfm?10814
Ire
venerdì 21 novembre 2008
La variable indipendente del sapere
Ciao a tutt*
ho postato due articoli che mi hanno fatto riflettere...
grazie a Laura che me li ha inviati.
Dal Manifesto:
La variabile indipendente del sapere
Benedetto Vecchi
ho postato due articoli che mi hanno fatto riflettere...
grazie a Laura che me li ha inviati.
Dal Manifesto:
La variabile indipendente del sapere
Benedetto Vecchi
L'università funziona oramai come un'impresa, anche se trasforma materie prime alquanto particolari, come particolare è la merce che produce.
Ma ciò che la rende il suo operato paragonabile a un'impresa è il modello organizzativo che si è data nel corso degli ultimi trent'anni.
In primo luogo, tanto a New York come a Sidney, la produzione del numero dei laureati e la formazione di ricercatori risponde a criteri di allocazione ottimale di risorse economiche, di «capitale umano», di accesso alla finanza e di produttività.
Ma ciò che la rende il suo operato paragonabile a un'impresa è il modello organizzativo che si è data nel corso degli ultimi trent'anni.
In primo luogo, tanto a New York come a Sidney, la produzione del numero dei laureati e la formazione di ricercatori risponde a criteri di allocazione ottimale di risorse economiche, di «capitale umano», di accesso alla finanza e di produttività.
Inoltre, l'università deve fare profitti, al punto che in molti paesi è diventata norma la possibilità di poter brevettare i risultati delle ricerche scientifiche conseguiti nelle università, facendo venire meno quella consuetudine, diffusa prevalentemente, nel mondo anglosassone, di considerare di «pubblico dominio» le scoperte e le invenzioni avvenute nei laboratori universitari.
Le trasformazioni delle formazione universitaria in attività produttiva ha ovviamente incontrato e incontrano resistenze. E tuttavia ciò che è evidente è la crisi dei due grandi modelli di università, quello anglosassone, fortemente orientato al cortocircuito tra economia e formazione qualificata, e quello «europeo», dove la trasmissione del sapere poteva avvenire solo in un mondo a parte, separato cioè dalla realtà.
E non è quindi un caso che le pratiche di resistenza alla trasformazione delle università in attività produttive si pongano decisamente lo sviluppo di università autonome, dove sperimentare modalità di produzione e trasmissione del sapere a partire dalla convinzione che la conoscenza è sempre il risultato di pratiche sociali collettive tese a far crescere e arricchire gli «alberi della
conoscenza».
Negli anni Sessanta del Novecento lo studioso statunitense Robert Merton scrisse un saggio è divenuto un piccolo classico sul rapporto tra produzione di conoscenza e sapere accumulati nel passato. Si trattava de «Sulle spalle dei giganti», laddove lo studioso americano riprendeva una frase di Isaac Newton, che sottolineava appunto il fatto che aveva potuto elaborare la sua tesi sulla forza di gravità grazie all'opera di scienziati del passato. Ma anche in questo caso il risultato era proprietà esclusiva dell'inventore.
Ciò che contraddittoriamente emerge dalla crisi dei modelli universitari dominanti è il carattere squisitamente sociale della produzione di conoscenza e che la trasformazione delle università in imprese tende a legittimare l'appropriazione privata del sapere che tale trasformazione veicola.
Da qui, la necessità di affermare l'autonomia delle pratiche culturali, comprese quelle universitarie.
D'altronde, lo sforzo progettuale teso a sperimentare un'università autonoma è il background, nonché l'obiettivo de <<Università globale>>, il volume presentato in questa pagina. Si tratta di saggi che narrano esperienze di corsi che rompono con l'autoreferenzialità delle discipline e che fanno inoltre crollare le mura che spesso separano gli ambiti disciplinari.
Testi scritti con stili espositivi diversi, ma tuttavia convergenti nell'immaginare un modello di università autonomo dal mercato, ma anche da quella concezione elitaria del sapere che spesso accompagna le critiche alle proposte di «modernizzare» il sistema della formazione.
La sua lettura offre inoltre alcune coordinate per comprendere l'«onda anomala» che sta travolgendo le università italiane.
In primo luogo, perché il disegno che si intravede dietro al taglio dei finanziamenti, il blocco parziale del turn-over e la possibilità degli atenei di diventare fondazione è in sintonia con l'università ridotta a impresa.
Inoltre, perché rivendica la radicale alterità a quanti vorrebbero addomesticare tanto le merci prodotte che le materie prime usate.
L'onda anomala di queste settimane non solo esprime un rifiuto, ma prefigura una possibile incompatibilità della formazione con lo spirito imprenditoriale dominante. In altri termini, se i corsi universitari devono produrre una forza-lavoro con le competenze necessarie al mercato del lavoro e plasmata dai principi dell'individuo proprietario, l'onda anomala travolge il progetto di normalizzare la formazione.
Il collettivo Edu-factory affronta questi temi a partire da esperienza consumate in altri paesi. Certo, in India o negli Stati Uniti le dinamiche sociali sono altre, ma c'è tuttavia una convergenza tra quanto sta accadendo in Italia e la riflessione proveniente da quelle due realtà, in particolar modo quando affrontano criticamente le questioni del multiculturalismo o della scelta di riviste anglosassoni come certificazione del lavoro di ricerca scelta.
Temi apparentemente lontani dalla denuncia del potere di veto o di condizionamento delle imprese private nella scelta dei campi di ricerca da «coltivare». La possibilità che prenda corpo un progetto di università autonoma deve sì misurarsi con le trasformazioni strutturali, ma anche con le materie insegnate, i contenuti trasmessi, la critica al rapporto asimmetrico di potere tra docente e discente. Argomenti tutti discussi in questo volume, ma
argomenti che sono diventati il creativo contesto in cui si muove l'onda anomala che ha scosso finalmente un'università, quella italiana, che mostrava l'indiscutibile segno del declino.
Le trasformazioni delle formazione universitaria in attività produttiva ha ovviamente incontrato e incontrano resistenze. E tuttavia ciò che è evidente è la crisi dei due grandi modelli di università, quello anglosassone, fortemente orientato al cortocircuito tra economia e formazione qualificata, e quello «europeo», dove la trasmissione del sapere poteva avvenire solo in un mondo a parte, separato cioè dalla realtà.
E non è quindi un caso che le pratiche di resistenza alla trasformazione delle università in attività produttive si pongano decisamente lo sviluppo di università autonome, dove sperimentare modalità di produzione e trasmissione del sapere a partire dalla convinzione che la conoscenza è sempre il risultato di pratiche sociali collettive tese a far crescere e arricchire gli «alberi della
conoscenza».
Negli anni Sessanta del Novecento lo studioso statunitense Robert Merton scrisse un saggio è divenuto un piccolo classico sul rapporto tra produzione di conoscenza e sapere accumulati nel passato. Si trattava de «Sulle spalle dei giganti», laddove lo studioso americano riprendeva una frase di Isaac Newton, che sottolineava appunto il fatto che aveva potuto elaborare la sua tesi sulla forza di gravità grazie all'opera di scienziati del passato. Ma anche in questo caso il risultato era proprietà esclusiva dell'inventore.
Ciò che contraddittoriamente emerge dalla crisi dei modelli universitari dominanti è il carattere squisitamente sociale della produzione di conoscenza e che la trasformazione delle università in imprese tende a legittimare l'appropriazione privata del sapere che tale trasformazione veicola.
Da qui, la necessità di affermare l'autonomia delle pratiche culturali, comprese quelle universitarie.
D'altronde, lo sforzo progettuale teso a sperimentare un'università autonoma è il background, nonché l'obiettivo de <<Università globale>>, il volume presentato in questa pagina. Si tratta di saggi che narrano esperienze di corsi che rompono con l'autoreferenzialità delle discipline e che fanno inoltre crollare le mura che spesso separano gli ambiti disciplinari.
Testi scritti con stili espositivi diversi, ma tuttavia convergenti nell'immaginare un modello di università autonomo dal mercato, ma anche da quella concezione elitaria del sapere che spesso accompagna le critiche alle proposte di «modernizzare» il sistema della formazione.
La sua lettura offre inoltre alcune coordinate per comprendere l'«onda anomala» che sta travolgendo le università italiane.
In primo luogo, perché il disegno che si intravede dietro al taglio dei finanziamenti, il blocco parziale del turn-over e la possibilità degli atenei di diventare fondazione è in sintonia con l'università ridotta a impresa.
Inoltre, perché rivendica la radicale alterità a quanti vorrebbero addomesticare tanto le merci prodotte che le materie prime usate.
L'onda anomala di queste settimane non solo esprime un rifiuto, ma prefigura una possibile incompatibilità della formazione con lo spirito imprenditoriale dominante. In altri termini, se i corsi universitari devono produrre una forza-lavoro con le competenze necessarie al mercato del lavoro e plasmata dai principi dell'individuo proprietario, l'onda anomala travolge il progetto di normalizzare la formazione.
Il collettivo Edu-factory affronta questi temi a partire da esperienza consumate in altri paesi. Certo, in India o negli Stati Uniti le dinamiche sociali sono altre, ma c'è tuttavia una convergenza tra quanto sta accadendo in Italia e la riflessione proveniente da quelle due realtà, in particolar modo quando affrontano criticamente le questioni del multiculturalismo o della scelta di riviste anglosassoni come certificazione del lavoro di ricerca scelta.
Temi apparentemente lontani dalla denuncia del potere di veto o di condizionamento delle imprese private nella scelta dei campi di ricerca da «coltivare». La possibilità che prenda corpo un progetto di università autonoma deve sì misurarsi con le trasformazioni strutturali, ma anche con le materie insegnate, i contenuti trasmessi, la critica al rapporto asimmetrico di potere tra docente e discente. Argomenti tutti discussi in questo volume, ma
argomenti che sono diventati il creativo contesto in cui si muove l'onda anomala che ha scosso finalmente un'università, quella italiana, che mostrava l'indiscutibile segno del declino.
I CAMPUS DEL CONFLITTO -
SOGGETTIVITÀ INTRADUCIBILI ALLE NORME DEL MERCATO
«Università globali», raccolti in un volume i materiali del collettivo Edu-factory.
I mutamenti nel sistema della formazione, dal rapporto con il mercato del lavoro e le imprese alla critica della proprietà intellettuale
Jon Solomon
I due temi di discussione di edu-factory sono da un lato le gerarchie nel mercato dell'istruzione superiore in connessione alla divisione del lavoro, dall'altro le forme di resistenza e la possibile costruzione di un'università autonoma. Il mio contributo indaga la loro articolazione comune a partire dalla ristrutturazione dell'università a Taiwan, mettendo a fuoco la centralità della lingua e della traduzione.
Propongo infine di considerare la riorganizzazione radicale delle scienze umane
come obiettivo pratico ed epistemologico di un'università autonoma. L'inglese globale - combinazione di politiche di governo, tendenze di mercato e disposizioni intellettuali ereditate dalla modernità coloniale/imperiale - ha acquisito lo status di lingua ufficiale per l'istruzione superiore a Taiwan. Ad esempio, la promozione alla junior faculty e il sistema di valutazione del rendimento dipende dalla pubblicazione nei giornali inglesi; un numero crescente di corsi di laurea è in inglese, mentre corsi telematici obbligatori con piattaforme e-learning (in inglese) prevedono uno scambio con un'università anglofona gemellata; gli studenti laureati in lingue e letterature di matrice non anglofona devono seguire corsi supplementari in inglese.
In breve, l'inglese globale è essenziale per l'accreditamento. Ciò pone il sistema universitario taiwanese in una posizione di dipendenza dall'industria della formazione anglofona globale. Sul lungo periodo, le istituzioni non riusciranno a preservare la loro autonomia di fronte all'espansione aggressiva condotta in Asia orientale e altrove dalle università anglofone.
Se vogliamo analizzare la costituzione di catene transnazionali di istruzione superiore, dobbiamo analizzare cosa ciò significhi e dove si situano le possibilità di trasformazione.
Un problema di traduzione
La prospettiva della traduzione ci insegna che ciascuno degli stati linguistici individuali dell'età moderna non è l'esito della creazione organica di un «popolo», bensì il risultato cristallizzato di una tecnica governamentale su scala globale - una tecnologia soggettiva di traduzione che assorbe le lingue invece di distinguerle - orientata alla gestione della popolazione. La categoria di lingua nazionale, cruciale per la formazione biopolitica delle popolazioni globali nel sistema degli stati-nazione, è il prodotto di una traduzione. La formazione delle lingue nazionali non avviene prima del processo di traduzione, ma solo a partire da esso.
Quindi, parlare nel codice di una lingua nazionale significa parlare tramite la mediazione di una traduzione. In questo regime di traduzione, la missione dell'università moderna è di lavorare per lo Stato-nazione nella produzione di un'estetica della cultura nazionale.
I differenti sistemi universitari sono quindi istituzioni di traduzione nazionale, con l'obiettivo di produrre conoscenza nel codice della lingua nazionale, in corrispondenza con le particolarità storiche e le differenze di genere, razza e classe. In altre parole, la razionalità di tali istituzioni ha la sua radice al di fuori dei confini dell'università: è collocata nello Stato-nazione.
Oggi tale supposta esteriorità dell'istituzione universitaria (insieme alla presunta interiorità «biologica» della lingua nazionale) non incontra più il bisogno di accumulazione flessibile, trasversale ai differenti mercati linguistici, richiesto da un'economia postfordista. Nel momento in cui il linguaggio è immediatamente produttivo, il coefficiente di differenza tra le lingue globali è direttamente incorporato, come principio organizzativo, nell'università, tanto per il valore della conoscenza, quanto per la cartografia che organizza la mappa cognitiva in regioni e differenze antropologiche.
Oltre i confini linguistici
Tutto ciò implica una moltiplicazione crescente, in termini di produzione e riproduzione, delle differenze di classe, organizzate secondo differenze etnico-linguistiche. E ci obbliga a ripensare tanto la nozione foucaultiana di università come stato disciplinare, quanto quella althusseriana di università come apparato ideologico statale.
Quello che né Michel Foucault né Louis Althusser avevano previsto era una situazione nella quale intere lingue sarebbero diventate in se stesse pratiche di disciplina e ideologia. Il relativo status della lingua inglese e cinese, nell'istruzione superiore taiwanese, non rivela solo l'esistenza di un'equazione tra competenza normativa e razionalità economica, ma una connessione tra questi due elementi e la cartografia delle regioni geografiche, delle differenze antropologiche e degli ordini di conoscenza codificati in lingue nazionali differenti, la cui sistematizzazione è gerarchica.
Non esiste, quindi, una pretesa di parità di status tra inglese e cinese; l'iniquità del sistema di punteggio rende tale disparità quantitativa e, come tale, impossibile da negare.
Il fatto che le università anglofone non presentino immediatamente alcun differenziale linguistico interno alla loro costituzione, non significa che non debbano fronteggiare gli stessi problemi dei sistemi universitari non occidentali. Proprio perchè alle lingue non occidentali viene delegata la funzione di lingue antropologicamente specifiche, utili per campi e discipline specializzate, esse sono in grado di istituire e controllare i confini tra le lingue.
Nel mantenimento della scarsità e dei controlli di confine c'è una convergenza tra organizzazione interna dell'università, divisione della conoscenza lungo le direttrici linguistico-antropologiche e governamentalità neoliberale. Poiché la relazione differenziale tra lingue nazionalizzate in un mondo postcoloniale è interno all'università (cosa che rende l'«Università della Cultura Nazionale» una mera facciata), è necessario un apparato che gestisca il «differente» e i suoi conflitti.
Se le scienze umane nell'economia postfordista perdessero il monopolio sulla conoscenza, continuerebbero a giocare un ruolo cruciale nel regime neoliberale, ad esempio mantenendo la normatività degli standard morali. Poiché la storia della nazionalizzazione linguistica - una storia sordida, fatta di repressione delle differenze di minoranza e di riorganizzazione del territorio e del lavoro condotta da uno stato post-imperiale o coloniale - va per definizione ripudiata, la lingua nazionale si rivela lo strumento più utile a fornire uno standard morale costitutivamente spoliticizzato, adatto a gestire la delegittimazione neoliberale del politico.
Eredità coloniali
Il regime linguistico del mercato neoliberale dell'università assume una funzione simile a quella dell'aiuto umanitario e del riscaldamento globale: è impossibile non concordare con tali istanze, ma tali costruzioni archetipiche di un discorso morale spoliticizzato creano un'estetica normalizzatrice, che insabbia la complessità delle relazioni politiche, sociali ed economiche.
Molte discussioni sulla corporate university propongono di rivitalizzare l'università come luogo di resistenza politica e culturale contro gli imperativi neoliberali. L'obiettivo politico non è in discussione, ma la loro efficacia è considerevolmente ridimensionata dalla struttura nazionale implicita nelle nozioni di «cultura» e «politica» ereditate dalla modernità imperiale/coloniale.
Si rischia infatti di ignorare non soltanto il nesso che - a dispetto della loro apparente contraddizione- lega nazionalismo e neoliberalismo, ma anche di rafforzare il lascito coloniale dell'«Università della Cultura Nazionale».
La relazione tra le lingue ha sempre a che vedere con la costruzione differenziale delle posizioni dei soggetti. Il problema non è che l'inglese globale si trovi a dominare il mercato dell'istruzione superiore, ma piuttosto il fatto che il «differente» tra le lingue sia sussunto dalla logica del capitale e introiettato nell'organizzazione universitaria.
Il problema è che tale «differente» si istituisce in connessione alla moltiplicazione di «classe», come codifica di una differenza antropologica interna al processo di costituzione di uno stato globale. È tale «internalizzazione» che dobbiamo trasformare.
Allora, decostruire la gerarchia del linguaggio non è tanto rivoluzionario quanto trasformare ed appropriarsi di quella operazione -la traduzione - che costruisce linguaggi e li organizza in modo gerarchico, per inventare così una nuova base, non antropologica e non coloniale, per le scienze umane e per le relazioni sociali.
Piuttosto che attestarsi in posizione di retroguardia contro il dominio dell'inglese globale, in difesa di una lingua nazionale strutturata dal regime della traduzione, dovremmo tentare di mobilitare non questa o quella lingua, ma il fatto stesso che il «differente» linguistico sia stato introiettato nel sistema universitario globale come principio organizzativo e forma strutturata della soggettività.
L'università autonoma può, quindi, trarre vantaggio dalla specificità del biopotere della lingua nel sistema universitario, per realizzare una trasformazione biopolitica che possa essere «esternalizzata».
Tassonomie della rivolta
Abbiamo dunque bisogno di contro-pratiche di traduzione-controcorrente volte a una riorganizzazione radicale di lungo periodo delle discipline della conoscenza. Discipline e regioni che non hanno nulla a che vedere con le culture e le lingue non occidentali sono il terreno primario di insorgenza, luoghi dove mobilitare il «differente» linguistico.
Tramite il rifiuto dello schema tassonomico della differenza antropologica gestito dalla traduzione (dispositivo per il governo delle popolazioni e per le divisioni disciplinari a partire dalla conquista coloniale), l'insorgenza mira a modellare oggetti transdisciplinari, transculturali, transnazionali e translinguistici, dove prima esistevano solo oggetti univoci e unitari.
Le scienze umane, prima organizzate su base nazionale, possono così divenire il luogo per forme biopolitiche di invenzione.
L'obiettivo di questo progetto è la riorganizzazione delle relazioni sociali codificate nelle divisioni disciplinari delle scienze umane, lungo le direttrici di una figura transdisciplinare nuova - la moltitudine degli stranieri - non più legata alla struttura del risentimento e alla tassonomia della differenza «metafisicoloniale».
Il valore del sapere
Un gruppo di studenti, ricercatori e docenti che si è costituito nel corso del tempo, grazie anche a un certo «nomadismo» culturale che ha consentito di mettere a confronto esperienze eterogenee.
È nato così il collettivo «edu-factory», che ha messo in piedi un gruppo di discussione telematica attorno all'«industria del sapere» che vede ricercatori, studenti e docenti italiani, inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, statunitensi, austrialiani, cinesi, indiani. Per mesi, attorno ad alcuni temi - rapporto tra università e mondo del lavoro, il multiculturalismo, la crisi della democrazia, la dimensione globale nella produzione del sapere - i partecipanti alla lista di discussione sono stati chiamati da dare il loro contributo. Ora quei contributi sono stati raccolti nel volume «Università globale. Il nuovo mercato del sapere» (manifestolibri)
NEUROGREEN
ecologie sociali, strategie radicali
negli anni zerozero della catastrofe
http://liste.rekombinant.org/wws/subrequest/neurogreen
SOGGETTIVITÀ INTRADUCIBILI ALLE NORME DEL MERCATO
«Università globali», raccolti in un volume i materiali del collettivo Edu-factory.
I mutamenti nel sistema della formazione, dal rapporto con il mercato del lavoro e le imprese alla critica della proprietà intellettuale
Jon Solomon
I due temi di discussione di edu-factory sono da un lato le gerarchie nel mercato dell'istruzione superiore in connessione alla divisione del lavoro, dall'altro le forme di resistenza e la possibile costruzione di un'università autonoma. Il mio contributo indaga la loro articolazione comune a partire dalla ristrutturazione dell'università a Taiwan, mettendo a fuoco la centralità della lingua e della traduzione.
Propongo infine di considerare la riorganizzazione radicale delle scienze umane
come obiettivo pratico ed epistemologico di un'università autonoma. L'inglese globale - combinazione di politiche di governo, tendenze di mercato e disposizioni intellettuali ereditate dalla modernità coloniale/imperiale - ha acquisito lo status di lingua ufficiale per l'istruzione superiore a Taiwan. Ad esempio, la promozione alla junior faculty e il sistema di valutazione del rendimento dipende dalla pubblicazione nei giornali inglesi; un numero crescente di corsi di laurea è in inglese, mentre corsi telematici obbligatori con piattaforme e-learning (in inglese) prevedono uno scambio con un'università anglofona gemellata; gli studenti laureati in lingue e letterature di matrice non anglofona devono seguire corsi supplementari in inglese.
In breve, l'inglese globale è essenziale per l'accreditamento. Ciò pone il sistema universitario taiwanese in una posizione di dipendenza dall'industria della formazione anglofona globale. Sul lungo periodo, le istituzioni non riusciranno a preservare la loro autonomia di fronte all'espansione aggressiva condotta in Asia orientale e altrove dalle università anglofone.
Se vogliamo analizzare la costituzione di catene transnazionali di istruzione superiore, dobbiamo analizzare cosa ciò significhi e dove si situano le possibilità di trasformazione.
Un problema di traduzione
Il paradigma di organizzazione nazionale è alla base di molte delle critiche al predominio della lingua inglese nel mercato della formazione globale, in funzione difensiva contro il neoliberalismo. Queste critiche muovono dall'assunto per cui sia la lingua che la differenza linguistica corrispondono - in modo naturalistico - ad una differenza antropologica.
La prospettiva della traduzione ci insegna che ciascuno degli stati linguistici individuali dell'età moderna non è l'esito della creazione organica di un «popolo», bensì il risultato cristallizzato di una tecnica governamentale su scala globale - una tecnologia soggettiva di traduzione che assorbe le lingue invece di distinguerle - orientata alla gestione della popolazione. La categoria di lingua nazionale, cruciale per la formazione biopolitica delle popolazioni globali nel sistema degli stati-nazione, è il prodotto di una traduzione. La formazione delle lingue nazionali non avviene prima del processo di traduzione, ma solo a partire da esso.
Quindi, parlare nel codice di una lingua nazionale significa parlare tramite la mediazione di una traduzione. In questo regime di traduzione, la missione dell'università moderna è di lavorare per lo Stato-nazione nella produzione di un'estetica della cultura nazionale.
I differenti sistemi universitari sono quindi istituzioni di traduzione nazionale, con l'obiettivo di produrre conoscenza nel codice della lingua nazionale, in corrispondenza con le particolarità storiche e le differenze di genere, razza e classe. In altre parole, la razionalità di tali istituzioni ha la sua radice al di fuori dei confini dell'università: è collocata nello Stato-nazione.
Oggi tale supposta esteriorità dell'istituzione universitaria (insieme alla presunta interiorità «biologica» della lingua nazionale) non incontra più il bisogno di accumulazione flessibile, trasversale ai differenti mercati linguistici, richiesto da un'economia postfordista. Nel momento in cui il linguaggio è immediatamente produttivo, il coefficiente di differenza tra le lingue globali è direttamente incorporato, come principio organizzativo, nell'università, tanto per il valore della conoscenza, quanto per la cartografia che organizza la mappa cognitiva in regioni e differenze antropologiche.
Oltre i confini linguistici
Tutto ciò implica una moltiplicazione crescente, in termini di produzione e riproduzione, delle differenze di classe, organizzate secondo differenze etnico-linguistiche. E ci obbliga a ripensare tanto la nozione foucaultiana di università come stato disciplinare, quanto quella althusseriana di università come apparato ideologico statale.
Quello che né Michel Foucault né Louis Althusser avevano previsto era una situazione nella quale intere lingue sarebbero diventate in se stesse pratiche di disciplina e ideologia. Il relativo status della lingua inglese e cinese, nell'istruzione superiore taiwanese, non rivela solo l'esistenza di un'equazione tra competenza normativa e razionalità economica, ma una connessione tra questi due elementi e la cartografia delle regioni geografiche, delle differenze antropologiche e degli ordini di conoscenza codificati in lingue nazionali differenti, la cui sistematizzazione è gerarchica.
Non esiste, quindi, una pretesa di parità di status tra inglese e cinese; l'iniquità del sistema di punteggio rende tale disparità quantitativa e, come tale, impossibile da negare.
Il fatto che le università anglofone non presentino immediatamente alcun differenziale linguistico interno alla loro costituzione, non significa che non debbano fronteggiare gli stessi problemi dei sistemi universitari non occidentali. Proprio perchè alle lingue non occidentali viene delegata la funzione di lingue antropologicamente specifiche, utili per campi e discipline specializzate, esse sono in grado di istituire e controllare i confini tra le lingue.
Nel mantenimento della scarsità e dei controlli di confine c'è una convergenza tra organizzazione interna dell'università, divisione della conoscenza lungo le direttrici linguistico-antropologiche e governamentalità neoliberale. Poiché la relazione differenziale tra lingue nazionalizzate in un mondo postcoloniale è interno all'università (cosa che rende l'«Università della Cultura Nazionale» una mera facciata), è necessario un apparato che gestisca il «differente» e i suoi conflitti.
Se le scienze umane nell'economia postfordista perdessero il monopolio sulla conoscenza, continuerebbero a giocare un ruolo cruciale nel regime neoliberale, ad esempio mantenendo la normatività degli standard morali. Poiché la storia della nazionalizzazione linguistica - una storia sordida, fatta di repressione delle differenze di minoranza e di riorganizzazione del territorio e del lavoro condotta da uno stato post-imperiale o coloniale - va per definizione ripudiata, la lingua nazionale si rivela lo strumento più utile a fornire uno standard morale costitutivamente spoliticizzato, adatto a gestire la delegittimazione neoliberale del politico.
Eredità coloniali
Il regime linguistico del mercato neoliberale dell'università assume una funzione simile a quella dell'aiuto umanitario e del riscaldamento globale: è impossibile non concordare con tali istanze, ma tali costruzioni archetipiche di un discorso morale spoliticizzato creano un'estetica normalizzatrice, che insabbia la complessità delle relazioni politiche, sociali ed economiche.
Molte discussioni sulla corporate university propongono di rivitalizzare l'università come luogo di resistenza politica e culturale contro gli imperativi neoliberali. L'obiettivo politico non è in discussione, ma la loro efficacia è considerevolmente ridimensionata dalla struttura nazionale implicita nelle nozioni di «cultura» e «politica» ereditate dalla modernità imperiale/coloniale.
Si rischia infatti di ignorare non soltanto il nesso che - a dispetto della loro apparente contraddizione- lega nazionalismo e neoliberalismo, ma anche di rafforzare il lascito coloniale dell'«Università della Cultura Nazionale».
La relazione tra le lingue ha sempre a che vedere con la costruzione differenziale delle posizioni dei soggetti. Il problema non è che l'inglese globale si trovi a dominare il mercato dell'istruzione superiore, ma piuttosto il fatto che il «differente» tra le lingue sia sussunto dalla logica del capitale e introiettato nell'organizzazione universitaria.
Il problema è che tale «differente» si istituisce in connessione alla moltiplicazione di «classe», come codifica di una differenza antropologica interna al processo di costituzione di uno stato globale. È tale «internalizzazione» che dobbiamo trasformare.
Allora, decostruire la gerarchia del linguaggio non è tanto rivoluzionario quanto trasformare ed appropriarsi di quella operazione -la traduzione - che costruisce linguaggi e li organizza in modo gerarchico, per inventare così una nuova base, non antropologica e non coloniale, per le scienze umane e per le relazioni sociali.
Piuttosto che attestarsi in posizione di retroguardia contro il dominio dell'inglese globale, in difesa di una lingua nazionale strutturata dal regime della traduzione, dovremmo tentare di mobilitare non questa o quella lingua, ma il fatto stesso che il «differente» linguistico sia stato introiettato nel sistema universitario globale come principio organizzativo e forma strutturata della soggettività.
L'università autonoma può, quindi, trarre vantaggio dalla specificità del biopotere della lingua nel sistema universitario, per realizzare una trasformazione biopolitica che possa essere «esternalizzata».
Tassonomie della rivolta
Abbiamo dunque bisogno di contro-pratiche di traduzione-controcorrente volte a una riorganizzazione radicale di lungo periodo delle discipline della conoscenza. Discipline e regioni che non hanno nulla a che vedere con le culture e le lingue non occidentali sono il terreno primario di insorgenza, luoghi dove mobilitare il «differente» linguistico.
Tramite il rifiuto dello schema tassonomico della differenza antropologica gestito dalla traduzione (dispositivo per il governo delle popolazioni e per le divisioni disciplinari a partire dalla conquista coloniale), l'insorgenza mira a modellare oggetti transdisciplinari, transculturali, transnazionali e translinguistici, dove prima esistevano solo oggetti univoci e unitari.
Le scienze umane, prima organizzate su base nazionale, possono così divenire il luogo per forme biopolitiche di invenzione.
L'obiettivo di questo progetto è la riorganizzazione delle relazioni sociali codificate nelle divisioni disciplinari delle scienze umane, lungo le direttrici di una figura transdisciplinare nuova - la moltitudine degli stranieri - non più legata alla struttura del risentimento e alla tassonomia della differenza «metafisicoloniale».
Il valore del sapere
Un gruppo di studenti, ricercatori e docenti che si è costituito nel corso del tempo, grazie anche a un certo «nomadismo» culturale che ha consentito di mettere a confronto esperienze eterogenee.
È nato così il collettivo «edu-factory», che ha messo in piedi un gruppo di discussione telematica attorno all'«industria del sapere» che vede ricercatori, studenti e docenti italiani, inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, statunitensi, austrialiani, cinesi, indiani. Per mesi, attorno ad alcuni temi - rapporto tra università e mondo del lavoro, il multiculturalismo, la crisi della democrazia, la dimensione globale nella produzione del sapere - i partecipanti alla lista di discussione sono stati chiamati da dare il loro contributo. Ora quei contributi sono stati raccolti nel volume «Università globale. Il nuovo mercato del sapere» (manifestolibri)
NEUROGREEN
ecologie sociali, strategie radicali
negli anni zerozero della catastrofe
http://liste.rekombinant.org/wws/subrequest/neurogreen
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