ho postato due articoli che mi hanno fatto riflettere...
grazie a Laura che me li ha inviati.
Dal Manifesto:
La variabile indipendente del sapere
Benedetto Vecchi
L'università funziona oramai come un'impresa, anche se trasforma materie prime alquanto particolari, come particolare è la merce che produce.
Ma ciò che la rende il suo operato paragonabile a un'impresa è il modello organizzativo che si è data nel corso degli ultimi trent'anni.
In primo luogo, tanto a New York come a Sidney, la produzione del numero dei laureati e la formazione di ricercatori risponde a criteri di allocazione ottimale di risorse economiche, di «capitale umano», di accesso alla finanza e di produttività.
Ma ciò che la rende il suo operato paragonabile a un'impresa è il modello organizzativo che si è data nel corso degli ultimi trent'anni.
In primo luogo, tanto a New York come a Sidney, la produzione del numero dei laureati e la formazione di ricercatori risponde a criteri di allocazione ottimale di risorse economiche, di «capitale umano», di accesso alla finanza e di produttività.
Inoltre, l'università deve fare profitti, al punto che in molti paesi è diventata norma la possibilità di poter brevettare i risultati delle ricerche scientifiche conseguiti nelle università, facendo venire meno quella consuetudine, diffusa prevalentemente, nel mondo anglosassone, di considerare di «pubblico dominio» le scoperte e le invenzioni avvenute nei laboratori universitari.
Le trasformazioni delle formazione universitaria in attività produttiva ha ovviamente incontrato e incontrano resistenze. E tuttavia ciò che è evidente è la crisi dei due grandi modelli di università, quello anglosassone, fortemente orientato al cortocircuito tra economia e formazione qualificata, e quello «europeo», dove la trasmissione del sapere poteva avvenire solo in un mondo a parte, separato cioè dalla realtà.
E non è quindi un caso che le pratiche di resistenza alla trasformazione delle università in attività produttive si pongano decisamente lo sviluppo di università autonome, dove sperimentare modalità di produzione e trasmissione del sapere a partire dalla convinzione che la conoscenza è sempre il risultato di pratiche sociali collettive tese a far crescere e arricchire gli «alberi della
conoscenza».
Negli anni Sessanta del Novecento lo studioso statunitense Robert Merton scrisse un saggio è divenuto un piccolo classico sul rapporto tra produzione di conoscenza e sapere accumulati nel passato. Si trattava de «Sulle spalle dei giganti», laddove lo studioso americano riprendeva una frase di Isaac Newton, che sottolineava appunto il fatto che aveva potuto elaborare la sua tesi sulla forza di gravità grazie all'opera di scienziati del passato. Ma anche in questo caso il risultato era proprietà esclusiva dell'inventore.
Ciò che contraddittoriamente emerge dalla crisi dei modelli universitari dominanti è il carattere squisitamente sociale della produzione di conoscenza e che la trasformazione delle università in imprese tende a legittimare l'appropriazione privata del sapere che tale trasformazione veicola.
Da qui, la necessità di affermare l'autonomia delle pratiche culturali, comprese quelle universitarie.
D'altronde, lo sforzo progettuale teso a sperimentare un'università autonoma è il background, nonché l'obiettivo de <<Università globale>>, il volume presentato in questa pagina. Si tratta di saggi che narrano esperienze di corsi che rompono con l'autoreferenzialità delle discipline e che fanno inoltre crollare le mura che spesso separano gli ambiti disciplinari.
Testi scritti con stili espositivi diversi, ma tuttavia convergenti nell'immaginare un modello di università autonomo dal mercato, ma anche da quella concezione elitaria del sapere che spesso accompagna le critiche alle proposte di «modernizzare» il sistema della formazione.
La sua lettura offre inoltre alcune coordinate per comprendere l'«onda anomala» che sta travolgendo le università italiane.
In primo luogo, perché il disegno che si intravede dietro al taglio dei finanziamenti, il blocco parziale del turn-over e la possibilità degli atenei di diventare fondazione è in sintonia con l'università ridotta a impresa.
Inoltre, perché rivendica la radicale alterità a quanti vorrebbero addomesticare tanto le merci prodotte che le materie prime usate.
L'onda anomala di queste settimane non solo esprime un rifiuto, ma prefigura una possibile incompatibilità della formazione con lo spirito imprenditoriale dominante. In altri termini, se i corsi universitari devono produrre una forza-lavoro con le competenze necessarie al mercato del lavoro e plasmata dai principi dell'individuo proprietario, l'onda anomala travolge il progetto di normalizzare la formazione.
Il collettivo Edu-factory affronta questi temi a partire da esperienza consumate in altri paesi. Certo, in India o negli Stati Uniti le dinamiche sociali sono altre, ma c'è tuttavia una convergenza tra quanto sta accadendo in Italia e la riflessione proveniente da quelle due realtà, in particolar modo quando affrontano criticamente le questioni del multiculturalismo o della scelta di riviste anglosassoni come certificazione del lavoro di ricerca scelta.
Temi apparentemente lontani dalla denuncia del potere di veto o di condizionamento delle imprese private nella scelta dei campi di ricerca da «coltivare». La possibilità che prenda corpo un progetto di università autonoma deve sì misurarsi con le trasformazioni strutturali, ma anche con le materie insegnate, i contenuti trasmessi, la critica al rapporto asimmetrico di potere tra docente e discente. Argomenti tutti discussi in questo volume, ma
argomenti che sono diventati il creativo contesto in cui si muove l'onda anomala che ha scosso finalmente un'università, quella italiana, che mostrava l'indiscutibile segno del declino.
Le trasformazioni delle formazione universitaria in attività produttiva ha ovviamente incontrato e incontrano resistenze. E tuttavia ciò che è evidente è la crisi dei due grandi modelli di università, quello anglosassone, fortemente orientato al cortocircuito tra economia e formazione qualificata, e quello «europeo», dove la trasmissione del sapere poteva avvenire solo in un mondo a parte, separato cioè dalla realtà.
E non è quindi un caso che le pratiche di resistenza alla trasformazione delle università in attività produttive si pongano decisamente lo sviluppo di università autonome, dove sperimentare modalità di produzione e trasmissione del sapere a partire dalla convinzione che la conoscenza è sempre il risultato di pratiche sociali collettive tese a far crescere e arricchire gli «alberi della
conoscenza».
Negli anni Sessanta del Novecento lo studioso statunitense Robert Merton scrisse un saggio è divenuto un piccolo classico sul rapporto tra produzione di conoscenza e sapere accumulati nel passato. Si trattava de «Sulle spalle dei giganti», laddove lo studioso americano riprendeva una frase di Isaac Newton, che sottolineava appunto il fatto che aveva potuto elaborare la sua tesi sulla forza di gravità grazie all'opera di scienziati del passato. Ma anche in questo caso il risultato era proprietà esclusiva dell'inventore.
Ciò che contraddittoriamente emerge dalla crisi dei modelli universitari dominanti è il carattere squisitamente sociale della produzione di conoscenza e che la trasformazione delle università in imprese tende a legittimare l'appropriazione privata del sapere che tale trasformazione veicola.
Da qui, la necessità di affermare l'autonomia delle pratiche culturali, comprese quelle universitarie.
D'altronde, lo sforzo progettuale teso a sperimentare un'università autonoma è il background, nonché l'obiettivo de <<Università globale>>, il volume presentato in questa pagina. Si tratta di saggi che narrano esperienze di corsi che rompono con l'autoreferenzialità delle discipline e che fanno inoltre crollare le mura che spesso separano gli ambiti disciplinari.
Testi scritti con stili espositivi diversi, ma tuttavia convergenti nell'immaginare un modello di università autonomo dal mercato, ma anche da quella concezione elitaria del sapere che spesso accompagna le critiche alle proposte di «modernizzare» il sistema della formazione.
La sua lettura offre inoltre alcune coordinate per comprendere l'«onda anomala» che sta travolgendo le università italiane.
In primo luogo, perché il disegno che si intravede dietro al taglio dei finanziamenti, il blocco parziale del turn-over e la possibilità degli atenei di diventare fondazione è in sintonia con l'università ridotta a impresa.
Inoltre, perché rivendica la radicale alterità a quanti vorrebbero addomesticare tanto le merci prodotte che le materie prime usate.
L'onda anomala di queste settimane non solo esprime un rifiuto, ma prefigura una possibile incompatibilità della formazione con lo spirito imprenditoriale dominante. In altri termini, se i corsi universitari devono produrre una forza-lavoro con le competenze necessarie al mercato del lavoro e plasmata dai principi dell'individuo proprietario, l'onda anomala travolge il progetto di normalizzare la formazione.
Il collettivo Edu-factory affronta questi temi a partire da esperienza consumate in altri paesi. Certo, in India o negli Stati Uniti le dinamiche sociali sono altre, ma c'è tuttavia una convergenza tra quanto sta accadendo in Italia e la riflessione proveniente da quelle due realtà, in particolar modo quando affrontano criticamente le questioni del multiculturalismo o della scelta di riviste anglosassoni come certificazione del lavoro di ricerca scelta.
Temi apparentemente lontani dalla denuncia del potere di veto o di condizionamento delle imprese private nella scelta dei campi di ricerca da «coltivare». La possibilità che prenda corpo un progetto di università autonoma deve sì misurarsi con le trasformazioni strutturali, ma anche con le materie insegnate, i contenuti trasmessi, la critica al rapporto asimmetrico di potere tra docente e discente. Argomenti tutti discussi in questo volume, ma
argomenti che sono diventati il creativo contesto in cui si muove l'onda anomala che ha scosso finalmente un'università, quella italiana, che mostrava l'indiscutibile segno del declino.
I CAMPUS DEL CONFLITTO -
SOGGETTIVITÀ INTRADUCIBILI ALLE NORME DEL MERCATO
«Università globali», raccolti in un volume i materiali del collettivo Edu-factory.
I mutamenti nel sistema della formazione, dal rapporto con il mercato del lavoro e le imprese alla critica della proprietà intellettuale
Jon Solomon
I due temi di discussione di edu-factory sono da un lato le gerarchie nel mercato dell'istruzione superiore in connessione alla divisione del lavoro, dall'altro le forme di resistenza e la possibile costruzione di un'università autonoma. Il mio contributo indaga la loro articolazione comune a partire dalla ristrutturazione dell'università a Taiwan, mettendo a fuoco la centralità della lingua e della traduzione.
Propongo infine di considerare la riorganizzazione radicale delle scienze umane
come obiettivo pratico ed epistemologico di un'università autonoma. L'inglese globale - combinazione di politiche di governo, tendenze di mercato e disposizioni intellettuali ereditate dalla modernità coloniale/imperiale - ha acquisito lo status di lingua ufficiale per l'istruzione superiore a Taiwan. Ad esempio, la promozione alla junior faculty e il sistema di valutazione del rendimento dipende dalla pubblicazione nei giornali inglesi; un numero crescente di corsi di laurea è in inglese, mentre corsi telematici obbligatori con piattaforme e-learning (in inglese) prevedono uno scambio con un'università anglofona gemellata; gli studenti laureati in lingue e letterature di matrice non anglofona devono seguire corsi supplementari in inglese.
In breve, l'inglese globale è essenziale per l'accreditamento. Ciò pone il sistema universitario taiwanese in una posizione di dipendenza dall'industria della formazione anglofona globale. Sul lungo periodo, le istituzioni non riusciranno a preservare la loro autonomia di fronte all'espansione aggressiva condotta in Asia orientale e altrove dalle università anglofone.
Se vogliamo analizzare la costituzione di catene transnazionali di istruzione superiore, dobbiamo analizzare cosa ciò significhi e dove si situano le possibilità di trasformazione.
Un problema di traduzione
La prospettiva della traduzione ci insegna che ciascuno degli stati linguistici individuali dell'età moderna non è l'esito della creazione organica di un «popolo», bensì il risultato cristallizzato di una tecnica governamentale su scala globale - una tecnologia soggettiva di traduzione che assorbe le lingue invece di distinguerle - orientata alla gestione della popolazione. La categoria di lingua nazionale, cruciale per la formazione biopolitica delle popolazioni globali nel sistema degli stati-nazione, è il prodotto di una traduzione. La formazione delle lingue nazionali non avviene prima del processo di traduzione, ma solo a partire da esso.
Quindi, parlare nel codice di una lingua nazionale significa parlare tramite la mediazione di una traduzione. In questo regime di traduzione, la missione dell'università moderna è di lavorare per lo Stato-nazione nella produzione di un'estetica della cultura nazionale.
I differenti sistemi universitari sono quindi istituzioni di traduzione nazionale, con l'obiettivo di produrre conoscenza nel codice della lingua nazionale, in corrispondenza con le particolarità storiche e le differenze di genere, razza e classe. In altre parole, la razionalità di tali istituzioni ha la sua radice al di fuori dei confini dell'università: è collocata nello Stato-nazione.
Oggi tale supposta esteriorità dell'istituzione universitaria (insieme alla presunta interiorità «biologica» della lingua nazionale) non incontra più il bisogno di accumulazione flessibile, trasversale ai differenti mercati linguistici, richiesto da un'economia postfordista. Nel momento in cui il linguaggio è immediatamente produttivo, il coefficiente di differenza tra le lingue globali è direttamente incorporato, come principio organizzativo, nell'università, tanto per il valore della conoscenza, quanto per la cartografia che organizza la mappa cognitiva in regioni e differenze antropologiche.
Oltre i confini linguistici
Tutto ciò implica una moltiplicazione crescente, in termini di produzione e riproduzione, delle differenze di classe, organizzate secondo differenze etnico-linguistiche. E ci obbliga a ripensare tanto la nozione foucaultiana di università come stato disciplinare, quanto quella althusseriana di università come apparato ideologico statale.
Quello che né Michel Foucault né Louis Althusser avevano previsto era una situazione nella quale intere lingue sarebbero diventate in se stesse pratiche di disciplina e ideologia. Il relativo status della lingua inglese e cinese, nell'istruzione superiore taiwanese, non rivela solo l'esistenza di un'equazione tra competenza normativa e razionalità economica, ma una connessione tra questi due elementi e la cartografia delle regioni geografiche, delle differenze antropologiche e degli ordini di conoscenza codificati in lingue nazionali differenti, la cui sistematizzazione è gerarchica.
Non esiste, quindi, una pretesa di parità di status tra inglese e cinese; l'iniquità del sistema di punteggio rende tale disparità quantitativa e, come tale, impossibile da negare.
Il fatto che le università anglofone non presentino immediatamente alcun differenziale linguistico interno alla loro costituzione, non significa che non debbano fronteggiare gli stessi problemi dei sistemi universitari non occidentali. Proprio perchè alle lingue non occidentali viene delegata la funzione di lingue antropologicamente specifiche, utili per campi e discipline specializzate, esse sono in grado di istituire e controllare i confini tra le lingue.
Nel mantenimento della scarsità e dei controlli di confine c'è una convergenza tra organizzazione interna dell'università, divisione della conoscenza lungo le direttrici linguistico-antropologiche e governamentalità neoliberale. Poiché la relazione differenziale tra lingue nazionalizzate in un mondo postcoloniale è interno all'università (cosa che rende l'«Università della Cultura Nazionale» una mera facciata), è necessario un apparato che gestisca il «differente» e i suoi conflitti.
Se le scienze umane nell'economia postfordista perdessero il monopolio sulla conoscenza, continuerebbero a giocare un ruolo cruciale nel regime neoliberale, ad esempio mantenendo la normatività degli standard morali. Poiché la storia della nazionalizzazione linguistica - una storia sordida, fatta di repressione delle differenze di minoranza e di riorganizzazione del territorio e del lavoro condotta da uno stato post-imperiale o coloniale - va per definizione ripudiata, la lingua nazionale si rivela lo strumento più utile a fornire uno standard morale costitutivamente spoliticizzato, adatto a gestire la delegittimazione neoliberale del politico.
Eredità coloniali
Il regime linguistico del mercato neoliberale dell'università assume una funzione simile a quella dell'aiuto umanitario e del riscaldamento globale: è impossibile non concordare con tali istanze, ma tali costruzioni archetipiche di un discorso morale spoliticizzato creano un'estetica normalizzatrice, che insabbia la complessità delle relazioni politiche, sociali ed economiche.
Molte discussioni sulla corporate university propongono di rivitalizzare l'università come luogo di resistenza politica e culturale contro gli imperativi neoliberali. L'obiettivo politico non è in discussione, ma la loro efficacia è considerevolmente ridimensionata dalla struttura nazionale implicita nelle nozioni di «cultura» e «politica» ereditate dalla modernità imperiale/coloniale.
Si rischia infatti di ignorare non soltanto il nesso che - a dispetto della loro apparente contraddizione- lega nazionalismo e neoliberalismo, ma anche di rafforzare il lascito coloniale dell'«Università della Cultura Nazionale».
La relazione tra le lingue ha sempre a che vedere con la costruzione differenziale delle posizioni dei soggetti. Il problema non è che l'inglese globale si trovi a dominare il mercato dell'istruzione superiore, ma piuttosto il fatto che il «differente» tra le lingue sia sussunto dalla logica del capitale e introiettato nell'organizzazione universitaria.
Il problema è che tale «differente» si istituisce in connessione alla moltiplicazione di «classe», come codifica di una differenza antropologica interna al processo di costituzione di uno stato globale. È tale «internalizzazione» che dobbiamo trasformare.
Allora, decostruire la gerarchia del linguaggio non è tanto rivoluzionario quanto trasformare ed appropriarsi di quella operazione -la traduzione - che costruisce linguaggi e li organizza in modo gerarchico, per inventare così una nuova base, non antropologica e non coloniale, per le scienze umane e per le relazioni sociali.
Piuttosto che attestarsi in posizione di retroguardia contro il dominio dell'inglese globale, in difesa di una lingua nazionale strutturata dal regime della traduzione, dovremmo tentare di mobilitare non questa o quella lingua, ma il fatto stesso che il «differente» linguistico sia stato introiettato nel sistema universitario globale come principio organizzativo e forma strutturata della soggettività.
L'università autonoma può, quindi, trarre vantaggio dalla specificità del biopotere della lingua nel sistema universitario, per realizzare una trasformazione biopolitica che possa essere «esternalizzata».
Tassonomie della rivolta
Abbiamo dunque bisogno di contro-pratiche di traduzione-controcorrente volte a una riorganizzazione radicale di lungo periodo delle discipline della conoscenza. Discipline e regioni che non hanno nulla a che vedere con le culture e le lingue non occidentali sono il terreno primario di insorgenza, luoghi dove mobilitare il «differente» linguistico.
Tramite il rifiuto dello schema tassonomico della differenza antropologica gestito dalla traduzione (dispositivo per il governo delle popolazioni e per le divisioni disciplinari a partire dalla conquista coloniale), l'insorgenza mira a modellare oggetti transdisciplinari, transculturali, transnazionali e translinguistici, dove prima esistevano solo oggetti univoci e unitari.
Le scienze umane, prima organizzate su base nazionale, possono così divenire il luogo per forme biopolitiche di invenzione.
L'obiettivo di questo progetto è la riorganizzazione delle relazioni sociali codificate nelle divisioni disciplinari delle scienze umane, lungo le direttrici di una figura transdisciplinare nuova - la moltitudine degli stranieri - non più legata alla struttura del risentimento e alla tassonomia della differenza «metafisicoloniale».
Il valore del sapere
Un gruppo di studenti, ricercatori e docenti che si è costituito nel corso del tempo, grazie anche a un certo «nomadismo» culturale che ha consentito di mettere a confronto esperienze eterogenee.
È nato così il collettivo «edu-factory», che ha messo in piedi un gruppo di discussione telematica attorno all'«industria del sapere» che vede ricercatori, studenti e docenti italiani, inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, statunitensi, austrialiani, cinesi, indiani. Per mesi, attorno ad alcuni temi - rapporto tra università e mondo del lavoro, il multiculturalismo, la crisi della democrazia, la dimensione globale nella produzione del sapere - i partecipanti alla lista di discussione sono stati chiamati da dare il loro contributo. Ora quei contributi sono stati raccolti nel volume «Università globale. Il nuovo mercato del sapere» (manifestolibri)
NEUROGREEN
ecologie sociali, strategie radicali
negli anni zerozero della catastrofe
http://liste.rekombinant.org/wws/subrequest/neurogreen
SOGGETTIVITÀ INTRADUCIBILI ALLE NORME DEL MERCATO
«Università globali», raccolti in un volume i materiali del collettivo Edu-factory.
I mutamenti nel sistema della formazione, dal rapporto con il mercato del lavoro e le imprese alla critica della proprietà intellettuale
Jon Solomon
I due temi di discussione di edu-factory sono da un lato le gerarchie nel mercato dell'istruzione superiore in connessione alla divisione del lavoro, dall'altro le forme di resistenza e la possibile costruzione di un'università autonoma. Il mio contributo indaga la loro articolazione comune a partire dalla ristrutturazione dell'università a Taiwan, mettendo a fuoco la centralità della lingua e della traduzione.
Propongo infine di considerare la riorganizzazione radicale delle scienze umane
come obiettivo pratico ed epistemologico di un'università autonoma. L'inglese globale - combinazione di politiche di governo, tendenze di mercato e disposizioni intellettuali ereditate dalla modernità coloniale/imperiale - ha acquisito lo status di lingua ufficiale per l'istruzione superiore a Taiwan. Ad esempio, la promozione alla junior faculty e il sistema di valutazione del rendimento dipende dalla pubblicazione nei giornali inglesi; un numero crescente di corsi di laurea è in inglese, mentre corsi telematici obbligatori con piattaforme e-learning (in inglese) prevedono uno scambio con un'università anglofona gemellata; gli studenti laureati in lingue e letterature di matrice non anglofona devono seguire corsi supplementari in inglese.
In breve, l'inglese globale è essenziale per l'accreditamento. Ciò pone il sistema universitario taiwanese in una posizione di dipendenza dall'industria della formazione anglofona globale. Sul lungo periodo, le istituzioni non riusciranno a preservare la loro autonomia di fronte all'espansione aggressiva condotta in Asia orientale e altrove dalle università anglofone.
Se vogliamo analizzare la costituzione di catene transnazionali di istruzione superiore, dobbiamo analizzare cosa ciò significhi e dove si situano le possibilità di trasformazione.
Un problema di traduzione
Il paradigma di organizzazione nazionale è alla base di molte delle critiche al predominio della lingua inglese nel mercato della formazione globale, in funzione difensiva contro il neoliberalismo. Queste critiche muovono dall'assunto per cui sia la lingua che la differenza linguistica corrispondono - in modo naturalistico - ad una differenza antropologica.
La prospettiva della traduzione ci insegna che ciascuno degli stati linguistici individuali dell'età moderna non è l'esito della creazione organica di un «popolo», bensì il risultato cristallizzato di una tecnica governamentale su scala globale - una tecnologia soggettiva di traduzione che assorbe le lingue invece di distinguerle - orientata alla gestione della popolazione. La categoria di lingua nazionale, cruciale per la formazione biopolitica delle popolazioni globali nel sistema degli stati-nazione, è il prodotto di una traduzione. La formazione delle lingue nazionali non avviene prima del processo di traduzione, ma solo a partire da esso.
Quindi, parlare nel codice di una lingua nazionale significa parlare tramite la mediazione di una traduzione. In questo regime di traduzione, la missione dell'università moderna è di lavorare per lo Stato-nazione nella produzione di un'estetica della cultura nazionale.
I differenti sistemi universitari sono quindi istituzioni di traduzione nazionale, con l'obiettivo di produrre conoscenza nel codice della lingua nazionale, in corrispondenza con le particolarità storiche e le differenze di genere, razza e classe. In altre parole, la razionalità di tali istituzioni ha la sua radice al di fuori dei confini dell'università: è collocata nello Stato-nazione.
Oggi tale supposta esteriorità dell'istituzione universitaria (insieme alla presunta interiorità «biologica» della lingua nazionale) non incontra più il bisogno di accumulazione flessibile, trasversale ai differenti mercati linguistici, richiesto da un'economia postfordista. Nel momento in cui il linguaggio è immediatamente produttivo, il coefficiente di differenza tra le lingue globali è direttamente incorporato, come principio organizzativo, nell'università, tanto per il valore della conoscenza, quanto per la cartografia che organizza la mappa cognitiva in regioni e differenze antropologiche.
Oltre i confini linguistici
Tutto ciò implica una moltiplicazione crescente, in termini di produzione e riproduzione, delle differenze di classe, organizzate secondo differenze etnico-linguistiche. E ci obbliga a ripensare tanto la nozione foucaultiana di università come stato disciplinare, quanto quella althusseriana di università come apparato ideologico statale.
Quello che né Michel Foucault né Louis Althusser avevano previsto era una situazione nella quale intere lingue sarebbero diventate in se stesse pratiche di disciplina e ideologia. Il relativo status della lingua inglese e cinese, nell'istruzione superiore taiwanese, non rivela solo l'esistenza di un'equazione tra competenza normativa e razionalità economica, ma una connessione tra questi due elementi e la cartografia delle regioni geografiche, delle differenze antropologiche e degli ordini di conoscenza codificati in lingue nazionali differenti, la cui sistematizzazione è gerarchica.
Non esiste, quindi, una pretesa di parità di status tra inglese e cinese; l'iniquità del sistema di punteggio rende tale disparità quantitativa e, come tale, impossibile da negare.
Il fatto che le università anglofone non presentino immediatamente alcun differenziale linguistico interno alla loro costituzione, non significa che non debbano fronteggiare gli stessi problemi dei sistemi universitari non occidentali. Proprio perchè alle lingue non occidentali viene delegata la funzione di lingue antropologicamente specifiche, utili per campi e discipline specializzate, esse sono in grado di istituire e controllare i confini tra le lingue.
Nel mantenimento della scarsità e dei controlli di confine c'è una convergenza tra organizzazione interna dell'università, divisione della conoscenza lungo le direttrici linguistico-antropologiche e governamentalità neoliberale. Poiché la relazione differenziale tra lingue nazionalizzate in un mondo postcoloniale è interno all'università (cosa che rende l'«Università della Cultura Nazionale» una mera facciata), è necessario un apparato che gestisca il «differente» e i suoi conflitti.
Se le scienze umane nell'economia postfordista perdessero il monopolio sulla conoscenza, continuerebbero a giocare un ruolo cruciale nel regime neoliberale, ad esempio mantenendo la normatività degli standard morali. Poiché la storia della nazionalizzazione linguistica - una storia sordida, fatta di repressione delle differenze di minoranza e di riorganizzazione del territorio e del lavoro condotta da uno stato post-imperiale o coloniale - va per definizione ripudiata, la lingua nazionale si rivela lo strumento più utile a fornire uno standard morale costitutivamente spoliticizzato, adatto a gestire la delegittimazione neoliberale del politico.
Eredità coloniali
Il regime linguistico del mercato neoliberale dell'università assume una funzione simile a quella dell'aiuto umanitario e del riscaldamento globale: è impossibile non concordare con tali istanze, ma tali costruzioni archetipiche di un discorso morale spoliticizzato creano un'estetica normalizzatrice, che insabbia la complessità delle relazioni politiche, sociali ed economiche.
Molte discussioni sulla corporate university propongono di rivitalizzare l'università come luogo di resistenza politica e culturale contro gli imperativi neoliberali. L'obiettivo politico non è in discussione, ma la loro efficacia è considerevolmente ridimensionata dalla struttura nazionale implicita nelle nozioni di «cultura» e «politica» ereditate dalla modernità imperiale/coloniale.
Si rischia infatti di ignorare non soltanto il nesso che - a dispetto della loro apparente contraddizione- lega nazionalismo e neoliberalismo, ma anche di rafforzare il lascito coloniale dell'«Università della Cultura Nazionale».
La relazione tra le lingue ha sempre a che vedere con la costruzione differenziale delle posizioni dei soggetti. Il problema non è che l'inglese globale si trovi a dominare il mercato dell'istruzione superiore, ma piuttosto il fatto che il «differente» tra le lingue sia sussunto dalla logica del capitale e introiettato nell'organizzazione universitaria.
Il problema è che tale «differente» si istituisce in connessione alla moltiplicazione di «classe», come codifica di una differenza antropologica interna al processo di costituzione di uno stato globale. È tale «internalizzazione» che dobbiamo trasformare.
Allora, decostruire la gerarchia del linguaggio non è tanto rivoluzionario quanto trasformare ed appropriarsi di quella operazione -la traduzione - che costruisce linguaggi e li organizza in modo gerarchico, per inventare così una nuova base, non antropologica e non coloniale, per le scienze umane e per le relazioni sociali.
Piuttosto che attestarsi in posizione di retroguardia contro il dominio dell'inglese globale, in difesa di una lingua nazionale strutturata dal regime della traduzione, dovremmo tentare di mobilitare non questa o quella lingua, ma il fatto stesso che il «differente» linguistico sia stato introiettato nel sistema universitario globale come principio organizzativo e forma strutturata della soggettività.
L'università autonoma può, quindi, trarre vantaggio dalla specificità del biopotere della lingua nel sistema universitario, per realizzare una trasformazione biopolitica che possa essere «esternalizzata».
Tassonomie della rivolta
Abbiamo dunque bisogno di contro-pratiche di traduzione-controcorrente volte a una riorganizzazione radicale di lungo periodo delle discipline della conoscenza. Discipline e regioni che non hanno nulla a che vedere con le culture e le lingue non occidentali sono il terreno primario di insorgenza, luoghi dove mobilitare il «differente» linguistico.
Tramite il rifiuto dello schema tassonomico della differenza antropologica gestito dalla traduzione (dispositivo per il governo delle popolazioni e per le divisioni disciplinari a partire dalla conquista coloniale), l'insorgenza mira a modellare oggetti transdisciplinari, transculturali, transnazionali e translinguistici, dove prima esistevano solo oggetti univoci e unitari.
Le scienze umane, prima organizzate su base nazionale, possono così divenire il luogo per forme biopolitiche di invenzione.
L'obiettivo di questo progetto è la riorganizzazione delle relazioni sociali codificate nelle divisioni disciplinari delle scienze umane, lungo le direttrici di una figura transdisciplinare nuova - la moltitudine degli stranieri - non più legata alla struttura del risentimento e alla tassonomia della differenza «metafisicoloniale».
Il valore del sapere
Un gruppo di studenti, ricercatori e docenti che si è costituito nel corso del tempo, grazie anche a un certo «nomadismo» culturale che ha consentito di mettere a confronto esperienze eterogenee.
È nato così il collettivo «edu-factory», che ha messo in piedi un gruppo di discussione telematica attorno all'«industria del sapere» che vede ricercatori, studenti e docenti italiani, inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, statunitensi, austrialiani, cinesi, indiani. Per mesi, attorno ad alcuni temi - rapporto tra università e mondo del lavoro, il multiculturalismo, la crisi della democrazia, la dimensione globale nella produzione del sapere - i partecipanti alla lista di discussione sono stati chiamati da dare il loro contributo. Ora quei contributi sono stati raccolti nel volume «Università globale. Il nuovo mercato del sapere» (manifestolibri)
NEUROGREEN
ecologie sociali, strategie radicali
negli anni zerozero della catastrofe
http://liste.rekombinant.org/wws/subrequest/neurogreen
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